“Il tuo dialetto ti fa vergognare? Allora il problema non è la lingua, ma la tua identità”

Non è col­pa del napo­le­tano se suona forte come un caf­fè bol­lente. 
Né del sar­do se ti sem­bra alieno come un codice cifrato. 
E nem­meno del sicil­iano se, a trat­ti, ti pare più teatro gre­co che chi­ac­chiera da bar. 
Il prob­le­ma non sono i dialet­ti: siete voi. Sì, pro­prio voi che li par­late con la coda tra le gambe e poi li rin­negate alla pri­ma occa­sione buona, come fos­sero un imbaraz­zo di gioven­tù.
Sec­on­do un sondag­gio fres­co fres­co di “Pre­ply”, napo­le­tano, sar­do e sicil­iano sareb­bero i dialet­ti meno amati d’Italia. Ma il det­taglio più tossi­co è questo: a detes­tar­li non sono solo “gli altri”, i milane­si col blaz­er e i romani da aper­i­ti­vo lun­go. 
No. 
A criti­car­li sono spes­so gli stes­si madrelin­gua. Napoli, Cagliari, Paler­mo: cit­tà in cui il dialet­to dovrebbe essere sacro, e invece viene trat­ta­to come un par­ente sco­mo­do, quel­lo che non invi­ti ai mat­ri­moni per­ché “fa col­ore, ma trop­po”.
Per­ché tan­to odio? Per­ché certe parole non pro­fu­mano di casa, ma di ver­gogna?
Spoil­er: c’entra la soli­ta vec­chia sto­ria del sen­tir­si “meno”
Il dialet­to, dici­amo­lo, è sta­to per decen­ni asso­ci­a­to alla povertà, alla provin­cia, alla scarsa istruzione. “Par­la bene!”, dice­vano le maestre, quan­do vol­e­vano dire: “Par­la ital­iano, ché se usi quel tuo accen­to sem­bri sce­mo”. 
E così abbi­amo impara­to a zit­tire la nos­tra voce aut­en­ti­ca, a stor­pi­ar­la, a livel­lar­la ver­so l’al­to. 
Che poi alto non è: è solo piat­to.
Il napo­le­tano, con la sua teatral­ità esplo­si­va, è diven­ta­to barzel­let­ta. Il sar­do, con i suoi suoni arcaici, è sta­to dip­in­to come idioma preis­tori­co. Il sicil­iano? 
Folk­lore da fic­tion Rai, da tirare fuori solo se reciti il mafioso buono col cuore di pan­na.
E chi li par­la, invece di difend­er­li, ha inizia­to a farsene una col­pa.
L’omologazione ci ha col­o­niz­za­ti la lin­gua
È il soli­to mec­ca­n­is­mo: più ti sen­ti fuori pos­to, più vuoi con­fonder­ti con lo sfon­do. 
E allo­ra giù a par­lare come a Milano anche se sei di Biton­to, a neu­tral­iz­zare ogni inf­les­sione, a usare parole che non ti apparten­gono solo per sem­brare più “adat­to”.
Ma atten­zione: chi rin­nega il pro­prio accen­to rin­nega anche un pez­zo del­la pro­pria sto­ria. 
E la sto­ria, quan­do la butti nel ces­so, pri­ma o poi tor­na su dal­lo scari­co, più puz­zo­lente di pri­ma.
Non si trat­ta solo di suono. Si trat­ta di iden­tità
Un dialet­to non è solo un modo diver­so di dire le cose. È un modo diver­so di sen­tir­le. È iro­nia, rit­mo, taglio cul­tur­ale. È la bat­tuta che in ital­iano non fa rid­ere, ma nel tuo dialet­to è una bom­ba. È una paro­la che ha il peso di dieci, e che nes­sun dizionario riesce a tradurre davvero.
Quin­di smet­ti­amo­la di ver­gog­nar­ci e com­in­ci­amo a riven­di­care
Non voglio sen­tir dire che “il napo­le­tano è vol­gare”, che “il sar­do è incom­pren­si­bile”, che “il sicil­iano è teatrale”. Lo sono per chi non li capisce, non per chi li vive.
Vogliamo davvero essere un Paese che si ver­gogna delle sue radi­ci lin­guis­tiche per far­si accettare da una soci­età sem­pre più plas­ti­fi­ca­ta? 
O vogliamo ripren­der­ci il dirit­to di par­lare come man­giamo, sen­za sen­tir­ci in difet­to?
Io ho già scel­to.
E tu? Quan­do ti sen­ti par­lare come parlavi da bam­bi­no, ti emozioni o ti cor­reggi?
Vera Tagliente
foto Trec­ca­ni
“Il tuo dialet­to ti fa ver­gognare? Allo­ra il prob­le­ma non è la lin­gua, ma la tua iden­tità”
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